mercoledì 28 dicembre 2016

E’ la più buona d’Italia perché ha amato oltre ogni limite


Nadia Ferrari ha ricevuto il premio della bontà 2016 per aver accudito un bambino con una grave malformazione abbandonato dai genitori

Grosseto, giugno 2016 – 
«Mi dicono che sono la persona più buona d’Italia, ma non dovevo essere io la premiata: il Premio della bontà è stato dato a me ma il vero esempio di bontà è stato il mio bambino che non c’è più, il mio angioletto, il mio Mario. Lui sì che lo meritava, ha dato amore a tutti quelli che ha incontrato nella sua breve e tormentata vita».

Nadia Ferrari, quarantanove anni, infermiera dell’ospedale della Misericordia di Grosseto, ha ricevuto il Premio nazionale della bontà Sant’Antonio di Padova 2016. Il riconoscimento, giunto alla quarantaduesima edizione, è consegnato a persone che si sono distinte per opere di generosità e altruismo. Nella motivazione del premio assegnato a Nadia Ferrari c’è scritto: “L’infermiera dell’amore materno”. Nadia infatti, quattro anni fa, si è presa cura di un bambino di origini orientali nato con gravi malformazioni fisiche e psichiche e abbandonato dai genitori. Mario è riuscito a vivere soltanto due anni e mezzo, ma nella sua breve vita non è stato solo: ha conosciuto l’amore che soltanto una mamma può dare. Questa mamma per lui è stata Nadia Ferrari.


«Anche se non sono stata la mamma che lo ha messo al mondo, sono stata la sua mamma infermiera
», dice con gli occhi umidi Nadia. «Mario mi ha ripagato con tanto, tanto amore». Nadia Ferrari non ha più lacrime. «Le ho versate tutte quando mi ha lasciato», dice. E poi si lascia cullare dai ricordi. «E’ tutto qui nella mia mente. Come se fosse accaduto ieri: il giorno in cui Mario e io ci siamo incontrati», dice: «Mario era stato ricoverato nel mio reparto, era un neonato di origini orientali nato a Siena. Dopo essere stato rifiutato dai genitori perché, per un parto difficile e prematuro, aveva avuto un’emorragia, era stato operato ed era diventato idrocefalo, un danno irreversibile che lo condannava a una vita breve e dolorosa. Me ne sono innamorata subito, al primo sguardo. Quando l’ho visto la prima volta coperto da tubicini era così indifeso con quel suo corpo così ferito dal destino. Ed è stato il destino a portarlo da me. Da Siena, Mario era arrivato a Grosseto proprio all’ospedale dove lavoravo. E io subito gli ho parlato, l’ho coccolato. L’ho sentito subito mio figlio, non so come dirle, non so come spiegarle».

Nadia già allora, divorziata e con una figlia di diciannove anni, non aveva una vita semplice. «Sì, vivevo in tante difficoltà», dice. «Ma quando Mario è entrato nella mia vita stavo più in ospedale che a casa. Se ero di riposo, tornavo in ospedale per coccolarlo, per farlo giocare. Un giorno, davanti a un assistente sociale, ho detto: “Che cosa darei per portarlo a casa con me. Conosce solo l’ospedale, vorrei fargli vedere il mare, una casa, una famiglia vera”. L’assistente mi ha detto che potevo chiedere l’affidamento e l’ho fatto subito, sicura che mia figlia avrebbe approvato, e infatti il premio lo devo dividere con lei che per questo fratellino è stata la più tenera delle sorelle».

«Come faceva a curarlo quando lavorava?».
«Ho preso un periodo di aspettativa dall’ospedale e mi sono dedicato completamente a lui, con l’aiuto di mia figlia. Abbiamo vissuto momenti bellissimi, ci ha dato tanto, mi vengono i brividi a ricordare la felicità di Mario quando ha visto il mare, il primo bagnetto, i giochi con la sabbia, era felice. Anche la salute migliorava, la fisioterapia lo ha aiutato tanto anche nei movimenti, e come era intelligente. Aveva imparato a mandare i bacini, quanto mi mancano…».
Nadia sorride mentre altre due lacrime le solcano il viso, non smette di piangerlo.
«Mi ero illusa davvero che la malattia potesse essere, se non vinta, almeno amministrata, avevo tanti progetti, avevo messo in vendita questa casa per comprarne una con l’ascensore, perché sognavo che Mario potesse andare a scuola e volevo che fosse indipendente, invece non c’è stato scampo. Improvvisamente un giorno si è aggravato e di nuovo è stato operato, ma non si è più ripreso e dopo qualche mese ci ha lasciato, e ci manca fisicamente ogni giorno di più. Ma Mario è sempre con me, sento le sue paroline dolci e gli parlo tutto il giorno
».

«Consiglierebbe la sua esperienza ad altri? E lei lo rifarebbe nonostante la sofferenza per la perdita del suo bambino?».
«Lo consiglio a tutti: ho ricevuto più di quanto ho dato. Anche se Mario non c’è più il suo calore e il suo amore non mi lasciano, mi scaldano sempre il cuore, grazie a lui non sarò mai più sola. Sì, lo rifarei subito, è stata la cosa migliore che ho fatto in vita mia. Il Premio della bontà è suo, di Mario, io non ho alcun merito, sono stata solo la mamma più fortunata del mondo».

di Sveva Orlandini

FONTE: Di Più N. 24
20 giugno 2016


Bellissimo articolo che dimostra, semmai ce ne fosse ancora bisogno, quanto grande è l'Amore delle madri per i propri figli. In questo caso, poi, non stiamo neppure parlando di una madre naturale, anche se Nadia, nei confronti del piccolo Mario, si è sempre sentita come se fosse la sua vera madre.
Grazie Nadia e grazie a tutte le persone che, come te, si prendono cura con tutto questo Amore dei propri figli, o di figli altrui non voluti. Il vostro Amore è grande e motivo certamente di tanto, tanto Bene per loro e per tutti! Grazie di vero cuore!

Marco

mercoledì 21 dicembre 2016

Il Primo Regalo

Era l’ultimo incontro di Catechismo prima delle vacanze di Natale. I bambini di terza elementare, sotto la guida della catechista Monica, avevano ricevuto l’incarico di portare delle statuine per il presepe dell’Oratorio.

L’ultimo ad arrivare fu Federico, un ragazzino dall’aspetto serio, che raggiunse subito i suoi compagni al bar.


«Ehi, sapete che giorno è oggi?».


Rosa, sistemandosi gli occhiali, rispose: «Oggi... dovevamo portare le statuine del presepio!».

«E ciascuno di noi doveva portare un personaggio diverso!», le fece eco il suo gemello Giovanni.


«Tu cos’hai portato?», chiese Alberto alla sua amica Laura.

«Io ho la Madonna... Guardate com’è bella!».

«Mentre io ho San Giuseppe, tutto intento a guardare...». Agnese s’interruppe. «Ehi, chi ha portato il bambino Gesù?».

I bambini chiamarono gli altri compagni di classe, poi misero sul tavolo le loro statuine. C’erano i re Magi, il pastore con la pecorella, un vero e proprio gregge di pecore, il bue e l’asinello, un pastore dormiente, un mendicante... Mancava proprio Lui, il bambino Gesù!

Mentre si lamentavano, Monica entrò nel bar per chiamarli.

«Bambini, andiamo a fare il Presepio... Ehi, che succede?».

«ABBIAMO DIMENTICATO GESÙ!!!», gridarono insieme.

Monica si avvicinò al gruppo e chiese:

«Avanti, ditemi cos’è successo!».

«Oggi dovevamo portare le statuine del presepio, vero?», piagnucolò Teresina.

«Le vedo», rispose la catechista. «Ma... mi sembra che manchi qualcuno...», soggiunse.

«Appunto», ribatté Davide. «Abbiamo dimenticato la più importante: quella di Gesù!».

Monica sospirò, poi si sedette fra i bambini e disse:

«Non disperatevi. Spesso accade a molti di noi di dimenticarsi di Gesù, non inteso come statuina, ma come Figlio di Dio nato per tutti noi. A proposito, vi siete mai chiesti perché Dio abbia deciso di farlo nascere sulla Terra come un bambino?».

I piccoli rimasero in silenzio. Monica allora proseguì:

«E sapete perché a Natale ci facciamo i regali?».

«Perché ci vogliamo bene!», esclamò finalmente Serena.

«Esatto! Dio ci ha voluto e ci vuole tanto bene da averci regalato il Suo Amore, nella persona di Gesù», concluse la ragazza.

«Ma allora è il Primo Regalo di Natale della Storia!», dissero tutti in coro.

«Avete detto bene. È per questo che noi festeggiamo il Natale: non dimenticatelo mai!».

In quel mentre, nel bar entrò un uomo. Aveva un cappotto consunto, con toppe qua e là; il suo volto era incorniciato da una barba ispida e nera, ma esprimeva una grande gioia. Si accostò a Monica e le chiese con voce roca:

«Mi hanno detto che vi manca Gesù Bambino per completare il vostro presepio...».

«Sì, ma... Come fa a saperlo?».

Senza rispondere, l’uomo estrasse da una delle tasche un piccolo involto azzurro.

«Tenete: ciò che cercate è qui!».

Così dicendo, mise fra le mani di uno stupefatto Federico il fazzoletto. Il bambino, sebbene titubante per lo strano aspetto di quella persona, fece come gli era stato chiesto: aprì il fazzoletto e...

«Guardate, Gesù è tornato!».

Nel fazzoletto, infatti, c’era il Gesù Bambino più bello che avessero mai visto, tanto che sembrava vero.

Finalmente, giunse il momento di sistemare le statuine nel Presepio allestito con l’aiuto di tutte le classi di Catechismo e dei ragazzi dell’Oratorio. Nella gioia generale, però, Rosa si ricordò:

«Bisogna ringraziare quel signore...».

«Ma dov’è andato?», le chiese Alberto.

«Forse è tornato da dove è venuto...», concluse Monica.

«Da dove?», domandò Laura.

La catechista, guardando il presepio, sorrise e ringraziò Dio in cuor suo, perché aveva fatto comprendere ai suoi bambini il mistero del Natale. Infine, non vista, aggiunse, proprio sulla capanna, un angelo.

Frattanto, fuori dall’Oratorio, il barbone che poco prima aveva consegnato ai piccoli il Bambino Gesù levò lo sguardo verso il cielo e disse:

«Padre, ho compiuto la mia missione».

Una Voce dall’alto gli rispose:

«Sono soddisfatto di te: come quel giorno a Betlemme, hai portato la Buona Notizia a qualcuno che già aspettava il Messia!».

«Spero solo che ora quei bambini riescano a dare il giusto spazio nella loro vita a Tuo Figlio...».

«Sarà senz’altro così: rendendosi conto da soli della Sua importanza, hanno fatto il primo passo, ma Lui era già nella loro vita. Ma ora vieni al Mio cospetto!».

Il barbone, a quelle parole, si tolse il cappotto e, spiegando le sue bianche ali, tornò da dove era venuto.




 
di Emilia Flocchini

FONTE: Qumram.net

mercoledì 7 dicembre 2016

La bambina che trascorse la notte coperta dal manto della Madonna


Una bambina di appena tre anni si perse nella città spagnola di Rojales. Arrivò la notte gelata, e i suoi genitori, distrutti dalla preoccupazione, ricorsero alle autorità. La notizia corse di bocca in bocca, e tutta la cittadina si mobilitò. I giovani percorsero tutte le strade della città e di quella vicina con delle torce, ma non c’era alcuna traccia della bambina. Era il 18 gennaio 1896.

Il giorno dopo, gli abitanti delle città limitrofe vennero avvisati dell’accaduto, e tutti cercarono la bambina con ansia. Le persone speravano di trovare almeno il suo cadavere, supponendo che non avesse resistito al freddo della notte precedente.

Alle 15.00 i suoi zii, che continuavano a cercarla, la videro accostata a una grande pietra, dietro la quale c’era un enorme precipizio. La bambina sembrava senza vita, ma sentendo la voce degli zii si alzò e corse verso di loro con le braccia alzate come se si stesse svegliando da un sonno profondo. La zia, abbracciandola forte e piangendo di emozione, le chiese: “Tesoro, non hai avuto freddo stanotte?

La bambina rispose sorridendo che non aveva sentito freddo perché con lei c’era una donna che la copriva con il suo manto. La zia, incredula, continuò a interrogarla:

Una donna ha passato la notte con te?
Sì, zia, una donna buona e affettuosa”, rispose la piccola.

Ma cosa ti diceva quella donna? Non vedevi le luci delle nostre lanterne, non sentivi le nostre grida?

”, disse la bambina, “ma la donna mi ha detto: 'Non muoverti, figlia mia, verranno a prenderti'”.

Gli abitanti della cittadina, entusiasti per quello che sentivano, gridavano al miracolo. Il giorno dopo venne celebrata una Messa solenne in azione di grazie. La bambina venne portata davanti all’immagine di Nostra Signora del Carmelo, e quando la vide disse alla madre:

Mamma! Mamma! È questa la donna che mi ha coperto stanotte!

La bambina stava per cadere nel precipizio, perché era notte e non si riusciva a vedere nulla. Per questo la Madonna, da brava madre, rimase con lei accanto a quella pietra, perché la bambina non si sbagliasse e non si dirigesse verso l’abisso.

Per questo, quando la bambina sentiva le grida e vedeva le torce accese, la Madonna le diceva di non muoversi e che a breve sarebbero venuti a prenderla, perché essendo al buio e vicina al precipizio se si fosse mossa sarebbe sicuramente caduta.

[Traduzione dal portoghese a cura di Roberta Sciamplicotti]

20 giugno 2016

FONTE: Aleteia.org 



Domani, 8 dicembre, è la Solennità dell'Immacolata Concezione, e per questa importante Festa Mariana ho pensato che sarebbe stato bello postare sul mio blog qualcosa che avesse come tema proprio Lei, la Vergine SS., Madre di Dio e di tutti quanti noi.
Girando sul web, quasi per caso, mi sono imbattuto in questa storia meravigliosa e, senza stare a pensarci troppo, ho capito che era proprio quello che volevo.
Che dolcezza e delicatezza in questa splendida storia..... quanta premura e quanto Amore ha la nostra tenera Madre per tutti quanti noi!
Amiamo, amiamo questa tenera e amorevolissima Madre, cerchiamo di amarLa con tutto il nostro cuore di figli. AmiamoLa e stiamo sicuri che anche Lei ci ama, di un Amore unico e illimitato, così come ha amato e ama il Suo Figlio e Signore Gesù Cristo.
Lode e Gloria a Te o Vergine Benedetta per tutti i Secoli dei Secoli. Amen!

Marco

sabato 3 dicembre 2016

Italiani, aiutateci a far rifiorire Haiti


Cura 80 mila bimbi l’anno e coltiva la terra per produrre cibo. Ma ora padre Rick ha un emergenza particolare: «Ci servono chirurghi pediatrici»


È quasi impossibile convincerlo ad allontanarsi da Haiti, dove le sue giornate iniziano all’alba con la celebrazione della Messa e finiscono a notte fonda in ufficio, tra conti da far tornare e progetti da organizzare. Ma questa volta padre Rick Frechette, medico americano e direttore, per il Paese caraibico flagellato dal terremoto che nel 2010 fece 230 mila vittime, delle attività dell’associazione Nph (Nuestros pequeños hermanos, i nostri piccoli fratelli), rappresentata in Italia dalla Fondazione Francesca Rava, ha fatto uno strappo per essere a Milano. Per raccontare a noi tutti quanto sia urgente il progetto di chirurgia pediatrica del Saint Damien, l’ospedale che assiste 80 mila bambini l’anno, cui sarà devoluto il ricavato della serata ideata dalla Fondazione Rava il 2 ottobre, protagonista l’Orchestra dell’Accademia del Teatro alla Scala diretta da Christoph Eschenbach.
«In Haiti ci sono solo tre chirurghi pediatrici su oltre 10 milioni di abitanti», dice padre Rick. «In partnership con la Società italiana di chirurgia pediatrica, Fondazione Rava sta inviando laggiù chirurghi italiani volontari per triplicare il numero di bambini operati all’anno e per formare nuovi chirurghi pediatrici». Rispetto al dopo-terremoto, quando i riflettori del mondo erano accesi sull’isola, le cose non vanno granché meglio, spiega padre Rick, che ogni mattina fa il giro delle baraccopoli per visitare i bambini nelle cliniche mobili e nel pomeriggio torna in ospedale, dove una lunga fila di persone lo attende per chiedergli aiuto. «Oggi il Paese è un disastro, sia economicamente sia politicamente, la moneta ha subito una pesante svalutazione negli ultimi 18 mesi, non c’è un governo e gli studi e i report ufficiali dimostrano quel che sappiamo». Che gli aiuti internazionali per Haiti dopo il terremoto non hanno risolto nulla. Del milione di sfollati di allora restano 65 mila persone ancora senza un tetto, ammassate in tendopoli sempre più affollate per via dei rimpatri forzati da parte della Repubblica Domenicana di migliaia di haitiani senza documenti.

«La maggior parte delle persone vive in povertà assoluta, gli ospedali sono stati in sciopero per quattro mesi su nove quest’anno, la criminalità è cresciuta dappertutto». Padre Rick sa di che cosa parla: si occupa di persona di trattare con i capi-gang per assicurarsi un po’ di tranquillità quando deve portare servizi e aiuti alle comunità più difficili, come è appena accaduto nello slum di Wharf Jeremy, dove esiste una scuola di Nph e presto ci sarà una clinica mobile. Quando non è una sparatoria o una lotta tra bande, l’emergenza è il colera, che dal sisma a oggi ha colpito 730 mila persone e fatto 9 mila vittime. «Resta endemico, con picchi massimi a ogni stagione delle piogge», dice il responsabile del Saint Damien che dispone di un centro per curare 20 mila pazienti l’anno e di un forno crematorio per chi non ce la fa. Un Paese a pezzi, solo in parte a causa del terremoto.
«L’unica vera ricostruzione è quella resa possibile da milioni di micro-iniziative della gente più semplice. Piccole attività che aiutano le persone a vivere, perché quel che resiste è lo spirito degli haitiani, il loro desiderio di farcela». E su questo conta padre Rick, convinto che gli unici a poter salvare Haiti siano gli haitiani. «Prendiamo le api, per esempio, che stanno diminuendo anche da noi come nel resto del mondo. Non possiamo per ora produrre abbastanza miele e derivati da essere autosufficienti e guadagnare dalla vendita, ma possiamo arrivare a soddisfare il 60 per cento del fabbisogno. Ma ci piacerebbe industrializzare il processo per riuscire a fare profitti. E questo vale per tutto». Per le 14 mila palme da cocco, le coltivazioni di canne da zucchero, gli alberi di pane, papaya, banane, lime, ciliegie, mandarini piantati grazie a un programma sostenuto da Nespresso, per esempio. Ma vale anche per gli allevamenti di pesci tilapia, le 1000 galline ovaiole che danno 600 uova al giorno, e tutte le altre attività che consentono a donne e giovani di portare a casa un salario per sfamare le famiglie.
Padre Rick ci crede, anche se magari non ha tempo per raccontarlo. Ma la domenica, quando riesce finalmente ad avere qualche ora libera per sé, sale sul trattore e prepara nuovi terreni da coltivare.




di Rossana Linguini

11 ottobre 2016

FONTE: Gente N. 40


Non se ne parla molto nel nostro paese, ma l'isola di Haiti, colpita da un terribile terremoto nel 2010, a distanza di quasi 7 anni dal disastroso evento tellurico versa tutt'ora in pessime condizioni, per la povertà che c'è, per le malattie, per tanta gente che è ancora senza casa, per la mancanza quasi assoluta di assistenza medica e persinio di generi di prima necessità.
Per chiunque volesse sostenere la Fondazione Francesca Rava, che porta tanto aiuto e speranza in questa terra così martoriata, vedi link: https://www.nph-italia.org/cosafacciamo/haiti/ lo può fare donando un proprio contributo libero, oppure acquistando un regalo solidale, o anche soltanto con una condivisione o un passaparola sulla situazione drammatica cui versa la popolazione di questa isola caraibica. Naturalmente, fondamentale è anche la preghiera di tutti per il bene di queste popolazioni.

Ancora una volta, lasciatemelo dire, onore e merito a tutti coloro che mettono tempo, sudore, cuore e vita per aiutare popolazioni così martoriate come quella Haitiana.... che cosa sarebbe il mondo senza queste persone? Ma ciascuno, ricordiamocelo sempre, può fare la sua parte, fosse anche soltanto con la donazione di un obolo o con una preghiera "lanciata" al Cielo con Amore. Ciascuno, senza eccezioni, può contribuire a creare una società migliore, un mondo nuovo basato sull'Amore.

Marco
 

venerdì 25 novembre 2016

Chiara Amirante: “Così abbraccio chi vive disperato nei deserti delle nostre metropoli”


Chiara Amirante, classe 1966, fondatrice di Nuovi Orizzonti: 
Un gran numero di ragazzi è dipendente da droghe, giochi d'azzardo, alcol e sesso nella solitudine più profonda. Ma tendere la mano può riaccendere la speranza in chi l'ha persa. Da quell'intuizione sono nati 210 centri di accoglienza e 5 Cittadelle Cielo. L'ultima inaugurata a Frosinone. 

ROMA
C'è un popolo della notte che vive nei deserti delle nostre metropoli imprigionato nella disperazione. Nelle strade delle nostre città un gran numero di ragazzi, spesso anche figli di buone famiglie, vive dipendente da droghe, giochi d'azzardo, alcol, sesso, nella solitudine più profonda. A loro tendiamo la mano sapendo che un dialogo, un abbraccio, anche un semplice saluto possono riaccendere la speranza in chi l'ha persa


Chiara Amirante, classe 1966, fondatrice di Nuovi Orizzonti, associazione di diritto pontificio impegnata in diverse iniziative sociali, parla con Repubblica il giorno in cui inaugura una "Cittadella Cielo" a Frosinone alla presenza di Andrea Bocelli, Amedeo Minghi, Filippo Neviani (in arte Nek), Raffaele Riefoli (in arte Raf) e suor Cristina Scuccia. Già cinque nel mondo, le Cittadelle sono piccoli villaggi di accoglienza dove chiunque si senta solo, emarginato e disperato, può essere accolto, sostenuto e amato. E dove chi lo desidera possa formarsi al volontariato per poi realizzare nuovi progetti e iniziative nella propria realtà locale.

Come è nata l'idea delle Cittadelle Cielo?

L'idea è nata nel '96 poco dopo aver aperto la prima comunità di accoglienza Nuovi Orizzonti per ragazzi di strada. Avevo iniziato ad andare in strada per mettermi in ascolto del grido del popolo della notte e mi ero resa conto di quante nuove povertà esistono. Allora non immaginavo di trovare tanti ragazzi disperati, anche ragazzi benestanti ma con la morte nel cuore, persone che erano finite in veri e propri tunnel infernali di droga e alcol, prostituzione, schiavitù... giovani con situazioni di vita personali drammatiche. Subito capii che dovevo creare dei luoghi per accoglierli


Cosa fece per loro?
La prima risposta fu appunto accoglierli per fare con loro percorsi di ricostruzione interiore e di guarigione del cuore basati sul Vangelo. Poi, man mano che questo popolo che bussava alle porte della comunità e del mio cuore aumentava nacque il sogno delle Cittadelle Cielo. Dei piccoli villaggi, aperti all'accoglienza di chiunque viva situazioni di grave disagio e con Centri di accoglienza, di ascolto, prevenzione, centri di cooperazione internazionale, formazione e promozione di cultura, centri di spiritualità, preghiera, luoghi di accoglienza per malati terminali, centri accoglienza alla vita. Piccoli villaggi di formazione al volontariato internazionale affinché chiunque lo desideri possa anche a sua volta essere di sostegno ad altri. Cerchiamo di portare la gioia a chi ha perso la speranza, dischiudere nuovi orizzonti a chi vive nel disagio, intervenendo a 360 gradi in tutti gli ambiti del disagio sociale


Quale regola di base vi spinge ad agire?
Soltanto una: l'Amore. L'Amore fa miracoli perché Dio è Amore


Va ancora oggi in strada la notte?
Oggi poco perché sono letteralmente sommersa di lavoro e di richieste di aiuto ma ci sono ormai tantissimi dei ragazzi accolti in comunità e altri che fanno parte di più di mille equipe di servizio che vanno in strada, nelle scuole, nei bar, nelle zone più "calde"...


Cosa fate quando andate in strada?
Semplicemente andiamo incontro ai ragazzi, a chi sta male, a chi è emarginato. Andiamo e iniziamo a dialogare fuori dalle discoteche, dai locali, nelle stazioni ovunque ci siano dei luoghi di aggregazione. Cerchiamo un dialogo vero, profondo. Spesso basta un saluto, un abbraccio, perché il cuore delle persone disperate e sole si apra


Abbracciate i ragazzi?
Anche, sì. Una delle tante iniziative che facciamo in strada si chiama Abbracci Gratis. Per strada offriamo un abbraccio. E da quell'abbraccio può nascere un dialogo, anche profondo. I malesseri sono tanti: dipendenza da droghe, alcol, gioco, bulimia, depressione. I ragazzi sono spesso immersi in situazione di disagio profondissimo. Ma basta poco per cambiare le cose. L'Amore di Gesù è più potente di tutto


Come ha deciso di andare per strada?
E' stato il frutto di una sofferenza, una malattia terribile che non sembrava avere soluzione. Lessi Giovanni 15: Questo vi ho detto perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena. Scoprii che la gioia piena che Cristo ci dona resiste alle prove più terribili della vita e questo mi spinse ad andare per strada a cercare i più disperati con il desiderio di riaccendere la speranza nei loro cuori


Da quella intuizione sono nate tante realtà. Per dare qualche numero: 210 centri di accoglienza, formazione e orientamento, 78 Centri residenziali di accoglienza, reinserimento e formazione, 57 Centri di ascolto di prevenzione e di servizio, 75 famiglie aperte all'accoglienza, 5 Cittadelle del Cielo nel mondo, 500.000 Cavalieri della Luce impegnati a portare la gioia a chi vive situazioni di grave disagio...
È tutto un miracolo. Come anche l'ultima Cittadella a Frosinone. Oggi presentiamo questa iniziativa al territorio perché vogliamo impegnarci insieme a ogni persona di buona volontà nell'edificare la Civiltà dell'Amore, una società rinnovata dalla forza della solidarietà, della condivisione, della giustizia sociale, dell'attenzione a chi soffre
.

di Paolo Rodari

6 novembre 2016

FONTE: Repubblica.it 




Conosco di fama Chiara Amirante e da diverso tempo seguo quello che questa splendida persona, per Grazia di Dio, compie. E ho colto l'occasione dell'inaugurazione della "Cittadella Cielo" di Frosinone, avvenuta il 6 novembre scorso (vedi video sopra), per postare questa bella intervista con lei.
Quanta Grazia, quanta Grazia c'è nelle Opere che il buon Dio compie attraverso questo suo docile strumento, questo suo "pennello" mi sentirei di chiamarla, che è appunto Chiara Amirante, a favore delle persone più bisognose, deboli, sbandate e disperate..... Un "pennello" dicevo nelle mani del buon Dio che, attraverso di lei, compie autentici Capolavori di Amore e Solidarietà che si chiamano Cittadelle Cielo, Comunità Nuovi Orizzonti, Cavalieri della Luce.... e tanto altro ancora. Un vero e proprio fiume d'Amore sgorga da tutte queste Opere meravigliose, l'Amore di Dio che, per parole della stessa Chiara, fa autentici Miracoli, perché Dio è Amore.
Grazie di cuore Chiara, per tutto quello che sei e che fai, sopratutto per essere un docile strumento nelle mani di Dio.... e Lode e Gloria a Dio per tutta la Benevolenza che sempre ci dona in tanti, infiniti modi diversi. Lode e Gloria al nostro buon Dio, sempre e dovunque!

Marco

venerdì 4 novembre 2016

Hanan Al Hroub, la maestra migliore del mondo tra i bambini del campo profughi


La maestra elementare di Betlemme, 5 figli, vincitrice del Global teacher prize 2016, il premio da un milione di dollari per il docente che si è maggiormente distinto nel suo lavoro: "A noi palestinesi hanno portato via la terra perché eravamo ignoranti"

DUBAI
Sono nata e cresciuta in un campo profughi tra violenza, soprusi e tensione quotidiana. Non ho avuto una vera infanzia e invece vorrei che i nostri figli, che tutti i bambini del mondo, potessero ridere, giocare, imparare a convivere in un clima sereno. Sono diventata insegnante per crescere una generazione che sappia vivere in pace

Hanan Al Hroub, 43 anni e cinque figli, maestra elementare nel campo profughi palestinese di Betlemme, ancora non riesce a credere di aver vinto il premio Nobel dei professori, "The Global teacher prize" indetto dalla Varkey Foundation. È la miglior docente del mondo dopo aver battuto altri ottomila candidati. Il sorriso occupa tutto il suo bel volto mentre le immagini della sua terra, dei giorni in classe, tra timori e speranze confinate nel campo, diventano realtà in un fiume di parole.

Cosa dirà ai suoi studenti domani?
Che sono il futuro dell'umanità, che le nostre armi sono solo l'educazione e l'istruzione. Con quelle possiamo cambiare il mondo, farlo diventare un luogo più giusto e pacifico.

Cosa farà con il milione di dollari del premio?
Vorrei usarlo per aiutare chi, di qualunque paese, vuole studiare e non ha i mezzi. O per i professori che vogliono imparare il mio metodo per combattere la violenza e l'aggressività.

Da cosa è nato il suo metodo?
Studiavo letteratura inglese all'università. Un giorno mio marito, mentre tornava a casa con i figli, è stato ferito a colpi di fucile dai soldati israeliani. I bambini hanno assistito impotenti, lo hanno visto a terra, coperto di sangue. Sono rimasti scioccati, non riuscivano più a studiare, ad uscire di casa. Era già difficile prima, vivere tra check pont e arresti. Dopo il ferimento non erano più gli stessi. Allora ho deciso: ho lasciato l'università e sono diventata io la loro maestra, ho cercato di riavvicinarli allo studio con il gioco e, giorno dopo giorno, anche i compagni di scuola hanno cominciato a venire da noi. Imparavano divertendosi. Decidere di insegnare in una vera classe è stato il passaggio successivo


Come insegna?
È difficile per ragazzini che crescono in un clima di violenza, ingiustizia e sopruso concentrarsi, studiare. Diventano facilmente aggressivi perché sono tristi, frustrati dalla realtà. Così quando arrivano a scuola cerco di essere allo stesso tempo un'insegnante e una sorta di genitore che li conosce a fondo, sa le loro debolezze e i loro problemi. Attraverso il gioco li educo ad ascoltare gli altri, a comprendere le opinioni diverse, ad accettare la sconfitta senza rabbia. Creo un clima di collaborazione, fiducia, rispetto. E i risultati si sono visti: meno aggressività, voti migliori


La sua è una vittoria per la Palestina?
Sì, con me hanno vinto tutti i docenti del mio paese. Dedico a loro la mia vittoria e anche a tutti i professori che insegnano in condizioni difficili, a chi come me crede che l'educazione, il sapere, siano le armi per cambiare il nostro futuro, il mondo. A noi palestinesi hanno portato via la terra perché eravamo ignoranti, ma le cose cambieranno. Come dice il verso di un poeta palestinese: "Nel corso del tempo potremo magari fare cose da prigionieri, ma stiamo educando la speranza"


Il Papa ha annunciato la sua vittoria.
Sono ancora incredula che una persona della sua levatura religiosa mi abbia nominata, che abbia ricordato il diritto dei bambini a giocare, ridere, che abbia parlato dell'importanza dei professori nel segnare le vite. Vorrei incontrarlo, le sue parole hanno significato per me che veramente c'è una volontà comune di combattere la violenza e vivere in pace.

di Caterina Pasolini

15 marzo 2016

FONTE: Repubblica.it  



Amare il proprio lavoro, svolgerlo con dedizione e passione, sopratutto quando questo porta frutti di pace e concordia..... ebbene, anche questo è Amore.
Grazie Hanan Al Hroub!

Marco

martedì 1 novembre 2016

La novantenne che a Padova ha lasciato casa a un gruppo di profughi arrivati dall’Africa


Il gesto generoso e controcorrente di Mara Gambato, figlia di emigranti italiani. Ha ceduto la villetta ai profughi e si è trasferita in una piccola casa in città.

Il coraggio non le manca. Nonostante l’età, Mara Gambato, novant’anni già compiuti, ha voluto fare un gesto concreto di straordinaria generosità. Colpita dalle continue stragi nel Mediterraneo, da quei volti di donne e bambini che cercano si sfuggire alla guerra e alla miseria, Mara ha deciso di lasciare ai profughi la sua piccola villetta a Sermeola di Rubano, in provincia di Padova, e di trasferirsi in un piccolo appartamento in città. Con il risultato che adesso dieci profughi del Gambia e della Guinea Bissau sono ospitati nella villetta dell’anziana donna.

Mara ha fatto tutto con semplicità, soltanto attraverso due telefonate. La prima ai nipoti per avvertirli della sua decisione e prepararli all’idea di lasciare la villetta e andare a vivere a Padova. La seconda a don Luca Favarin, animatore della cooperativa “Percorso Vita Onlus”, che si occupa proprio degli aiuti ai profughi. «Mara mi ha raccontato la sua vita, quando da bambina fu costretta ad emigrare con la sua famiglia, proprio come i profughi che oggi aiuta… All’inizio non volevo credere al suo gesto, ma poi ho capito che lo sentiva come una necessità» racconta padre Favarin.


La decisione della donna arriva in un momento molto delicato nella provincia di Padova, e in buona parte del Veneto, sulla gestione degli immigrati. Il sindaco ha perfino scritto un’ordinanza per disincentivare le famiglie ad aprire agli immigrati, come suggerito dalla Prefettura, per motivi di ordine pubblico. Ma tutto ciò non ha fermato la generosità di Mara.

12 maggio 2015

FONTE: Nonsprecare.it


Non posso negarlo, amo le storie di grande generosità e sopratutto amo le persone generose. Quelle persone che, le riconosci subito, ti aprono le braccia e il cuore appena le vedi. Di solito sono persone semplici, umili, ma anche molto attive e laboriose, che non rimangono indifferenti dinanzi ai drammi della vita, e fanno tutto quello che possono per migliorare le cose, per rendere migliore la società in cui viviamo. Come ha fatto questa signora di 90 anni (non è mai troppo tardi per essere generosi), come fanno tante altre persone in ogni parte del mondo.
Impegniamoci sempre al massimo a vivere la vita con altruismo, con generosità, con Amore.... se così faremo la nostra vita sarà molto più bella e il mondo in cui siamo diverrà di gran lunga migliore.

Marco

martedì 18 ottobre 2016

Renato Giuliani, vedovo e senza figli, lascia alla sua morte 7 milioni di euro ai bambini malati


Renato Giuliani era un imprenditore meccanico di Varese, morto nello scorso gennaio a 97 anni. Vedovo e senza figli, non voleva che la sua eredità andasse sprecata, e ha deciso di fare un regalo al territorio e alla sua comunità.

A beneficiare del lavoro di una vita, una decina di associazioni di volontariato e ricerca della sua città, per distribuire un totale di 7 milioni di euro. Lo riporta il Corriere della Sera, a cui il nipote Sandro Bernardini racconta “Per decenni zio Renato ha vissuto senza pensare alla morte. E quando l'ha sentita vicino ha pensato di nuovo al futuro


In memoria dell'imprenditore, verranno rifatti gli arredi dell'ospedale pediatrico "Filippo del Ponte" di Varese, ma verranno anche acquistare ambulanze, promosse ricerche sul cancro e sostenute iniziative sociali e culturali.

Una scelta altruista e commovente, che potrà fare la differenza per le associazioni di volontariato coinvolte. Una in particolare, è il "Ponte del Sorriso", che assiste bambini gravemente malati, a cui sono arrivati 780mila euro.

Di solito riusciamo a raccogliere sui 500 mila euro l'anno tramite donazioni e iscrizioni - spiega Emanuela Crivellaro, responsabile dell'associazione "Ponte del Sorriso", al Corriere della Sera - ma per noi questa è una svolta, significa programmare obiettivi che avranno una durata di 20 o 30 anni, ad esempio la costruzione di una struttura che consentirà ai genitori di rimanere vicini ai piccoli ricoverati e per la quale ci mancavano ancora 200 mila euro. Non abbiamo mai incontrato il signor Giuliani, la notizia della donazione ci è arrivata tramite telefono nel gennaio scorso. Si è trattato di un gesto commovente: quello di un anziano che al termine del suo cammino riesce a pensare ancora ai bambini. In una parola, al futuro
”. 



La decisione di Giuliani era nota ai familiari, come racconta il nipote ed esecutore testamentario sulle pagine del Corriere.

La svolta è arrivata con la morte della moglie, quando ha cominciato a interrogarmi cosa sarebbe rimasto di lui. Lì ha iniziato a chiedere a me e ad altri suoi collaboratori di cui si fidava quali fossero a Varese le realtà del volontariato serie a cui fare le donazioni - racconta il nipote Sandro Bernardini - È stata una scelta meditata e condivisa con le persone vicine. Anche per questo noi parenti ne condividiamo lo spirito e lo riteniamo un gesto di assoluta grandezza


Renato Giuliani aveva il diploma di disegnatore meccanico, era stato soldato e prigioniero in un campo di lavoro tedesco durante la seconda guerra mondiale, ed era poi diventato protagonista del boom economico nella zona di Varese. Insieme ai suoi fratelli, Giuliani fondò un'industria di macchianari industriali, la Ficep, che può vantare oggi sedi in tutto il mondo. Dopo essersi sganciato dai fratelli, creò una nuova azienda di materie plastiche, in cui ha lavorato fino a 93 anni.

La storia di Renato Giuliani racconta "una pagina perfetta di storia italiana", scrive Claudio del Frate, giornalista del Corriere. Una parabola umana fatta di duro lavoro, impegno, e, infine, solidarietà.

3 ottobre 2016

FONTE: Huffingtonpost.it 

lunedì 10 ottobre 2016

La toccante storia del piccolo Daniel, dal lampione di strada alla borsa di studio


Questa storia è in verità un pochino datata, essendo passata agli onori della cronaca più di un anno fa (precisamente nell’estate del 2015), ma è così particolare e, se vogliamo, anche così poetica, che ho pensato di non poterla tralasciare dal raccontarla sulle pagine di questo blog.

Tutto è iniziato con una fotografia, questa fotografia (vedi sopra) che ritrae un piccolo bimbo intento a fare i compiti con il suo librone di scuola posato su uno sgabello, alla luce di un lampione. A scattare questa fotografia è stata una ragazza filippina, Joice Gilos Torrefranca, studentessa universitaria, colpita dalla singolarità di ciò che stava vedendo. Questa fotografia è finita immediatamente sul proprio profilo di Facebook accompagnata da una semplice frase: “Sono stata ispirata da un bambino”.
Ebbene, in poco tempo questa immagine così simbolica e originale è divenuta virale, e di condivisione in condivisione si è diffusa a macchia d’olio su tutto il web fino a diventare conosciuta in tutto il mondo! Magia dei social network.

Ma chi è questo bambino e perché fa i suoi compiti all’aperto alla luce di un lampione, anziché farli comodamente in casa propria? Con i mezzi odierni non c’è voluto molto a conoscere la verità.
Il bambino si chiama Daniel, è filippino, ha 10 anni (quando è stata scattata questa foto ne aveva 9) e fa i compiti per strada all’aperto e alla luce di un lampione perché è di famiglia così povera da non avere neppure una casa vera e propria.
Andando a scavare ancora più in profondità nella storia di questo bambino filippino, tante altre cose sono venute fuori, particolari che contribuiscono ad accrescere l’alone di poesia di questa splendida immagine e ad approfondirne i contenuti.



Come detto, il bambino si chiama Daniel, Daniel Cabrera per la precisione, il cui cognome è quello di un padre che la madre però non ha mai voluto sposare, il quale si è ammalato ed è morto nel 2013 nella galera a Mindanao.
La madre si chiama Maria Christina Espinosa, è molto povera, sbriga qualche lavoretto e chiede l’elemosina alla “carinderia” McDonald’s di Mandaue City, una città di quasi 400mila abitanti. I capi di questo locale si dichiarano felici dell’aiuto economico fornito alla donna e a suo figlio, un aiuto in verità non certo risolutivo in quanto la donna è costretta ad “arrotondare” facendo anche la lavandaia. Guadagna il minimo indispensabile per tirare avanti con il piccolo Daniel e il suo fratellino Gabriel, scolaro anche lui di due anni più giovane, percependo appena 60 pesos al giorno, al cambio meno di un euro e mezzo. La donna possiede altri 4 figli, ma viste le ristrettezze economiche in cui si trova, sono dislocati tra i suoi parenti a Mindanao.
La povertà della famiglia è tale che essi vivono all’addiaccio sotto il muricciolo del McDonald’s, accatastando qualche panca per proteggersi dal brutto tempo. La luce Daniel la trova dov’è, nel sole durante il giorno, e in qualche lampione alla sera, mentre qualche pezzo di legno inchiodato può divenire un ottimo tavolino per fare i propri compiti.
A sentire il piccolo Daniel, non gli mancava nulla per andare a scuola, tranne l’album per disegnare. Possedeva tuttavia una sola matita, con cui doveva fare tutto, anche perché un'altra che aveva in precedenza gli era stata rubata e mai sostituita (ma cambiata con un “rosario” da tenere sempre con sé per scongiurare altri possibili furti).
Particolare interessante inerente alla fotografia, il compito che il piccolo Daniel stava svolgendo con il suo grosso libro aperto sopra lo sgabello, consisteva nell’identificare gli animali illustrati nella pagina del volume e trascriverne il nome in inglese. Un compito certamente interessante per un bambino di quell’età, un compito che il piccolo stava svolgendo con grande impegno, nonostante le difficoltà della sua condizione economica.

Questo e anche altri particolari della vita del piccolo Daniel ci sono stati forniti dal giornalista filippino Dale G. Israel, che due giorni dopo lo scatto di Joyce, si è interessato alla vicenda del bambino e della sua famiglia, facendo loro visita nel parcheggio del McDonald’s dove essi risiedono. Ed in tale occasione il giornalista ha domandato anche al bambino che cosa gli piacerebbe fare da grande…. e lui, con il candore tipico dei bambini gli ha risposto: “Il poliziotto. O forse anche il dottore”. Mestieri importanti insomma, al servizio degli altri…. e c’è da credere che la “gavetta” che sta facendo ora, nelle ristrettezze e nella povertà, servirà al piccolo Daniel quando sarà più grande, per ricercare con maggiore determinazione i propri obiettivi e anche per avere una visione della vita più altruistica, al servizio delle fasce più deboli e disagiate, quelle di cui lui stesso fa parte.



La cosa più bella di tutta questa particolarissima, originale storia, è che la toccante foto del piccolo Daniel che ha fatto il giro del mondo, ha innescato un’onda di solidarietà a favore del bambino filippino, così che in breve tempo sono arrivate tante donazioni a lui e alla sua famiglia, tanto da consentire loro di migliorare significativamente le proprie condizioni di vita.
Ora Daniel non dovrà soffrire per completare gli studi
, spiega la signora Espinosa…. e così ora è possibile vedere Daniel a scuola con tutto l’occorrente necessario per le sue lezioni. La madre ha fatto sapere che gli è stata affidata anche una borsa di studio universitaria per il proprio futuro, un futuro che ora appare assai più roseo che in precedenza. E così il suo sogno di diventare poliziotto o medico potrà realmente concretizzarsi grazie alla generosità della gente, sempre sensibile di fronte a storie come queste. 

E' questa una bellissima storia che sembra proprio destinata ad avere un lieto fine, nata tutta da un immagine profonda e poetica in cui c’è dentro la povertà e l’impegno di un bambino, la sensibilità di una studentessa, l’intraprendenza di un giornalista e la generosità della gente.
E anche questo è Amore.

Marco

martedì 27 settembre 2016

Terremoto ad Amatrice. Suor Marjana Lleshi: salvata dalle macerie da un "angelo" di nome Louis


Il racconto di suor Marjana Lleshi delle Ancelle del Signore. La religiosa è stata tratta miracolosamente in salvo da un ragazzo colombiano che nell'istituto per anziani faceva il badante. Il suo "angelo". “Pensando alle suore che sono ancora sotto le macerie - racconta -, devo dire che io non sono più santa di loro. Allora, mi chiedo: perché io mi sono salvata e loro no? Ho capito che Dio non guarda la perfezione della nostra fedeltà ai suoi comandamenti, ma è Amore e Misericordia” 

L’eroe che l’ha salvata, anzi l’angelo che l’ha strappata alle macerie, si chiama Louis. E’ un colombiano, di professione fa il badante e si trovava ad Amatrice per assistere una famiglia di anziani in villeggiatura proprio nell’Istituto delle suore "Ancelle del Signore" di padre Minozzi. Si trova all’ingresso della cittadina laziale e, come tutto il centro storico, anche la struttura è stata completamente rasa al suolo. A raccontare quella drammatica notte del 24 agosto è suor Marjana Lleshi. La sua foto, che la ritrae distesa per strada e sanguinante, è diventata l’immagine-simbolo della tragedia che ha colpito l’Italia. 15 erano gli ospiti presenti: sono morti quattro anziani e tre suore. Si cercano ancora dispersi sotto le macerie. Suor Marjana, 35 anni, albanese, si è salvata insieme ad altre due consorelle, ora ricoverate all’Ospedale di Rieti. Lei, invece, si trova attualmente ad Ascoli Piceno dove è stata curata ed è tenuta sotto controllo medico.

Suor Marjana, ci racconti come è andata?

Mi sono accorta del terremoto solo mezz’ora dopo la prima scossa, quando tutto mi cadeva addosso. Mi sono guardata attorno e ho visto che tutto crollava. Avevo un taglio sulla testa e ho chiesto aiuto. Ho guardato verso la strada, dove le persone erano perse e confuse. Nessuno mi rispondeva. Continuava a crollare tutto. Ho fatto in tempo a coprirmi con un maglione, indossare il velo e mi sono di nuovo rifugiata sotto il letto dicendomi che era meglio rimanere lì finché non fossero arrivati gli aiuti. E’ stato a quel punto che mi sono rassegnata.
Chiedevo aiuto invano. Ho cominciato, allora, a inviare messaggi alle persone più care per avvisare che c’era il terremoto, che non c’era più speranza, che sarei morta e che quello era un saluto di addio. In quel momento, ho sentito una voce che chiamava e in fondo al corridoio dove prima c’era una porta ho visto un ragazzo che era ospite da noi. Mi ha preso e mi ha invitato a seguirlo sulle macerie, conducendomi in salvo.


Che cosa c’era attorno a voi?

Tra le macerie ho sentito una nostra sorella che chiedeva aiuto. Mentre cercavamo di capire da dove provenisse la voce, abbiamo sentito un’altra suora lamentarsi perché le mancava il respiro e aveva le gambe bloccate. Siamo rimasti accanto a loro cercando di rasserenarle. Non potevamo smuovere le macerie, perché tutta la zona era pericolante. Poi sono arrivati gli aiuti con la guardia forestale e le due suore sono state tratte in salvo e portate all’ospedale di Rieti. 


Che pensieri ha avuto quando ha salutato i suoi cari pensando per l’ultima volta?


La voglia di vivere e di non mollare. Ma quando vedevo che non c’era nessuno ed ho perso ogni speranza, la prima cosa è stato pensare alle persone che mi sono più care. Ho quindi ripercorso la mia vita ed ho visto che la scelta di offrirla per gli altri era l’unica che valeva fare. E’ stato proprio in quel momento che ho sentito la voce del ragazzo che mi chiamava e in quella voce ho sentito la voce di Dio che mi chiamava alla vita.

Lei ha detto che quel ragazzo è stato per lei come un angelo.

E’ stato l’angelo che Dio ha mandato quando pensavo di morire e quando tutto attorno a me crollava. Era tutto raso al suolo e mi trovavo come sulla punta di un cono rovesciato in mezzo a briciole di macerie.
Quando ho visto quel ragazzo che mi diceva di seguirlo, io ho sentito Dio che mi diceva: devi ancora vivere, nonostante tutto, devi vivere.


Perché, secondo lei, Dio ha risparmiato proprio la sua vita?

Posso solo dare un’interpretazione personale perché non ci può essere una risposta a questa domanda. Io ho visto un Dio che, in mezzo alla morte, dà la vita. Pensando alle suore che sono ancora sotto le macerie, devo dire che io non sono più santa di loro. Allora, mi chiedo: perché io mi sono salvata e loro no?

La voce di suor Marjana è rotta dal pianto. E dopo una lunga pausa di silenzio aggiunge:

Ho capito che Dio non guarda la perfezione della nostra fedeltà ai suoi comandamenti, ma è Amore e Misericordia. Questa è la mia interpretazione rileggendo l’esperienza dolorosa che ho vissuto.

Sono morti molti bambini. Come si fa a sopravvivere a tanto dolore?


Purtroppo Amatrice è stata rasa al suolo. Tante famiglie sono distrutte. Ieri sentivo le persone fare l’elenco di chi c’era e di chi era morto. La gente è disperata e ha bisogno ora di essere aiutata. Le lacrime scendono. Sono tante. Ci sono tante persone che stanno rischiando. Il ragazzo che mi ha salvato ha rischiato la sua vita. Poteva andarsene, ma sapeva che potevano esserci persone ancora vive.

La speranza, suor Marjana, è viva in questi angeli?


Angeli? Ma qui la religione non c’entra. Noi uomini siamo fatti per amare e aiutare l’altro. E in queste tragedie si rivela cosa è l’uomo, a prescindere dalla sua religione, dalla sua cultura, dalla bontà stessa della persona. Prenda me. Io non sono migliore delle persone che non ce l’hanno fatta. Mi sono salvata. Perché? Chiedermelo ora non serve, perché non avrò mai risposta. Però prima o poi comprenderò, a Dio piacendo, cosa Lui vuole da me.


di M. Chiara Biagioni

25 agosto 2016

FONTE: SIR Servizio Informazione Religiosa


Torniamo al terremoto del centro Italia, ed ecco un'altra storia che merita di essere raccontata e conosciuta. E c'è tanto di bello in questa storia, pur nel contesto drammatico di un terribile evento come il terremoto: una persona che ha consacrato tutta la propria vita al Signore e al prossimo, salvata da una persona che, con grande generosità e slancio, le ha salvato la vita.
E' proprio vero quello che dice suor Marjana: noi uomini siamo fatti per amare e aiutare l'altro. E in questa storia c'è proprio tutto questo: Amore e aiuto verso il prossimo!
Grazie suor Marjana, grazie Louis, grazie a tutti coloro che si sono prodigati per aiutare e salvare vite umane dal disastro di questo terremoto! Non si potrà mai ringraziarvi abbastanza. Grazie di cuore a tutti voi!!!

Marco

domenica 18 settembre 2016

Dio conta su di te

Dio conta su di te

 Dio solo può dare la fede tu, però, puoi dare testimonianza.

 Dio solo può dare la speranza, tu, però, puoi infondere fiducia.

 Dio solo può dare l'amore, tu, però, puoi insegnare ad amare.

 Dio solo può dare la pace, tu, però, puoi creare l'unione.

 Dio solo è la vita, tu, però, puoi indicarla agli altri.

 Dio solo è la luce, tu, però, puoi irradiarla intorno a te.

 Dio solo è la vita, tu, però, puoi difenderla.

 Dio solo può fare l'impossibile, tu, però, puoi fare il possibile. 

 Dio solo basta a se stesso, egli, però, vuole poter contare su di te.


martedì 13 settembre 2016

Madre Teresa di Calcutta ai giovani di tutto il mondo

Testo tratto dalla lettera che Madre Teresa indirizzò alle migliaia di giovani che arrivarono da tutto il mondo per celebrare insieme con Giovanni Paolo II la Giornata Mondiale della Gioventù il 15 agosto 1991

Cari giovani, il male più grande di oggi è la mancanza d'amore e di carità, la terribile indifferenza verso i fratelli e sorelle, figli di Dio nostro Padre, che vivono ai margini, preda dello sfruttamento, della corruzione, della povertà, della malattia. Poiché la vita vi si apre davanti, la mia preghiera per voi è che possiate sempre più comprenderne il senso vero.
La vita è un dono meraviglioso di Dio e tutti sono stati creati per amare ed essere amati. Non è un dovere aiutare i poveri materialmente e spiritualmente: è un privilegio, perché Gesù, Dio fatto uomo, ci ha assicurato che "Qualunque cosa farete all'ultimo dei miei fratelli l'avrete fatta a me...". Non permettete che falsi scopi - denaro, potere, piacere - vi rendano schiavi e vi facciano smarrire il senso autentico della vita. Imparate ad amare cercando di conoscere sempre più profondamente Gesù, di credere fermamente in Lui, di ascoltarlo in profonda preghiera e nella meditazione delle sue parole e dei suoi gesti che rivelano perfettamente l'amore e sarete presi dalla corrente dell'amore divino che partecipa agli altri l'amore. Soltanto in Cielo noi vedremo di quanto siamo debitori ai poveri, per averci aiutati ad amare meglio il Signore.
Dio vi benedica
”.


Madre Teresa


venerdì 9 settembre 2016

Terremoto: Francesco, il giovane eroe di Pescara del Tronto


17 anni, di Roma, era in vacanza nelle Marche e la notte del 24 agosto si è subito unito ai soccorritori salvando molte persone

Quando il prossimo 16 ottobre Francesco diventerà maggiorenne nella sua Roma, più di un messaggio di auguri gli arriverà di certo anche da Pescara del Tronto, il paesino in provincia di Ascoli Piceno devastato dal terremoto. Perché Francesco è diventato un giovane (per i suoi 17 anni) e al contempo grande (per il numero di persone salvate) eroe di quella tragica notte del 24 agosto.

Un salvataggio dopo l'altro

Quando arriva la scossa distruttrice, Francesco si trova nel parco del paese con un gruppo di altri ragazzi, nei pressi di una stradina le cui case vengono sbriciolate in pochi secondi dal sisma. La prima idea è ovviamente quella di raggiungere casa per vedere come stanno i suoi parenti (alla fine tutti salvi), ma mentre sta correndo in mezzo a un'unica nuvola di polvere vede una signora bloccata nel proprio letto da un pezzo di tetto: insieme ad altri due uomini incontrati sul posto, Francesco riesce a liberarla e si ferma anche un attimo per farla accomodare su una sedia e tranquillizzarla. Dopo di che riprende la corsa verso casa...

Giunto alla sua abitazione, Francesco trova tutti i suoi cari in buona salute, ma all'appello manca la nonna, inutilmente chiamata a squarciagola nella notte: Francesco decide allora di rompere un vetro ed entrare in casa da una finestra a picco su uno strapiombo. L'operazione è rischiosa, ma per fortuna va tutto bene e il ragazzo riesce a trovare la nonna sotto shock portandola quindi al sicuro all'aperto. Sono da poco passate le 4 del mattino e per Francesco è solo l'inizio di una lunga serie di azioni che salvano diverse vite umane: dopo aver aiutato una signora a spostare un'auto con a bordo i suoi due figli da una zona a rischio crolli, il 17enne torna sui suoi passi e si unisce al primo gruppo di improvvisati soccorritori, contribuendo a estrarre vive dalle macerie tante persone.

Non mi sento un eroe
 


Nel campo di Pescara del Tronto, dove il ragazzo è tornato per stare con i suoi amici dopo aver passato notti insonni a Roma, Francesco è raccontato come una sorta di Superman, ma interpellato dall'Ansa si schermisce all'istante: 
Mi dicono tutti che sono stato un eroe. Ma a me non sembra, ho fatto il mio dovere e cioè salvare persone che conosco da una vita. Anzi, ne avrei volute salvare di più, ma purtroppo non ci sono riuscito.
Per la comunità di Pescara del Tronto è comunque più che abbastanza: il suo nome, da queste parti, continuerà a essere ricordato come quello del giovane-grande eroe di quella sciagurata notte del terremoto. 


29 agosto 2016

FONTE: Panorama.it


Bellissima vicenda umana che non potevo non riportare sulle pagine di questo blog. E del resto sono queste le cose che mi piace raccontare e far conoscere..... storie di vero Coraggio, Solidarietà, Amore.
Grazie Francesco, di tutto!!!

Marco